27ª FIRENZE MARATHON – Km 42,195 – Domenica 28 Novembre 2010
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C’è una sottile linea verde acido che segna come un nastro il percorso, il gomitolo di strade che bisogna fare. Correndo ci mettevo i piedi sopra e pensavo che ogni passo che facevo, era un passo che mi portava al traguardo.
La mia maratona è cominciata per scherzo. A una cena della squadra alcuni veterani, grandi maratoneti di esperienza e di risultati, la proposero a tutti, dicendo: è possibile! Potete farcela! Mentre loro parlavano persuasivi, io pensavo, “ma va’, non posso farcela, non sono un’atleta, sono una persona normalissima io, una mamma e non una ragazzina, non ho doti sportive eccezionali nè chissà che fisico adatto per la corsa di resistenza”.
Ma un tarlo è entrato in me. Perchè non accettare questa sfida? Perchè non mettermi alla prova ancora, per l’ennesima volta nella mia vita, e affrontare un’impresa all’apparenza impossibile. Così mi sono guardata allo specchio, ho visto una quarantenne pienamente dentro i suoi anni, ho detto “valà valà che non hai ancora dato tutto, puoi ancora stupire te stessa e gli altri intorno a te”. Così ho deciso di farlo.
E se decido di farlo, io lo faccio, cascasse il mondo, ma lo faccio, quello che a volte è un difetto, la caparbietà può essere un pregio, la volontà.
Ci sono riuscita grazie al fatto che Dani si è messo al mio fianco e ha deciso di stare con me in questa cosa. Senza di lui sarebbe stato molto più difficile. È stato il mio partner, il mio compagno, il mio amico, il mio avversario, il mio trainer, il mio motivatore, il mio aiuto, sempre. Prima era un po’ titubante, un giorno gli ho detto “Non mi mollare adesso, lo facciamo insieme, io e te, è una cosa nostra” lui ha risposto “Ok, ti accompagno, lo facciamo insieme”.
Arriviamo infine a Firenze, dopo quattro mesi di preparazione. Il sabato partiamo, ci fermiamo a mangiare in un ristorante delizioso ad Anghiari, decidiamo la strategia: la gara è un’incognita per noi, la maratona merita rispetto e suscita timore: noi non sappiamo se possiamo farcela, così decidiamo di stare insieme nella prima metà e macinare un po’ di chilometri, e poi che ognuno corresse la sua corsa.
Dani ha tagliato il traguardo poco dopo di me, e quei pochi minuti che l’ho aspettato all’arrivo sono stati brutti, senza di lui non riuscivo a essere contenta, infatti l’emozione è salita solo quando mi ha abbracciato e ci siamo stretti uno all’altra.
Ero infreddolita, bagnata fradicia, stanca, dovevamo toglierci da lì, continuava a diluviare e ora che ci eravamo fermati il freddo era devastante. Ma tutto il mio corpo si rifiutava di fare un altro passo. Ho avuto dieci minuti di distruzione totale, talmente provata da non sentire neanche gioia, solo male. Era arrivato IL MIO MURO, ma per fortuna la gara era finita. Sono stata programmata per 42.195 metri e non potevo fare uno di più.
L’altro momento terribile è stato alla partenza. Ricordo questo piazzale pieno all’inverosimile di gente: sembriamo tutti dei fantasmi, la pioggia è implacabile, non smette mai, anzi viene giù sempre più violenta, il vento è tagliente e gelido. Tra un mantello e l’altro incontriamo Jump un abbraccio una stretta, ci fa coraggio. Ricordo una coda interminabile per il bagno, e quei pochi istanti che ci passo dentro dove non piove: penso resto qui, non voglio tornare in quell’inferno. Dico a Dani questo è l’inferno e noi siamo i dannati.
Entriamo in griglia nella gabbia dei polli, di chi non ha il tempo, quindi tutta gente come noi, novellini e spaesati. Tutti incappucciati in questi sacchi verdi di plastica e con look anti-pioggia improbabili. Io mi sento disperata, letteralmente, senza speranza. Mi dico, già per me è una cosa difficile correre per quarantadue chilometri in una giornata fatta apposta per correre, oggi non ce la farò mai. Dopo i più di mille km fatti per la preparazione, dopo le due paia di scarpe che ho consumato, dopo che i miei bambini mi aspettano che ritorni a casa con la medaglia, dopo che ho preso l’antibiotico fino a ieri, dopo tutto quello che ho fatto per essere qui, devo affrontare ancora un imprevisto a un passo dalla fine. Per altro io non amo correre al freddo o con la pioggia, lo faccio se devo, ma ne soffro.
La preparazione della maratona è stata un filo verde lungo e sottile che è iniziato molto prima di Piazzale Michelangelo. È iniziato su e giù per le nostre meravigliose colline, è proseguito per buona parte dell’estate sulle spiaggie della riviera romagnola, si è srotolato fino a Berlino, a Pescara, e ovunque io fossi e ci fosse un po’ di strada, mi sono messa le scarpe e ci sono passata sopra di corsa. E adesso arriva una maledetta perturbazione atlantica tra due giorni bellissimi a buttare giù più acqua di quanto non ne sia venuta nell’ultimo mese. Allora dillo, Dio dei runners, che non ci vuoi bene a noi, dillo che ci vuoi mettere alla prova fino all’ultimo e vedere di che pasta siamo fatti.
Tengo gli occhi bassi per non avere l’acqua in faccia, ogni tanto li tiro sù per vedere lo sguardo rassegnato e incoraggiante di Dani che cerca di mandare vie le mie paure. Nel vuoto nel deserto totale di quel momento aprono le griglie e dico proviamo ad andare avanti, prendiamo il palloncino delle quattro ore e un quarto, so che Serena (con lei e altri amici abbiamo cenato la sera prima) è lì e vorrei trovarla. Ci facciamo strada in mezzo alla folla fino a che mi fermo, è impossibile in quel momento proseguire. Mi volto. Di fianco a me, esattamente di fianco a me, in mezzo a diecimila persone, spuntano da sotto una specie di turbante di plastica gli occhi ironici e sorridenti di Claudio (l’amico medico e maratoneta che con i suoi preziosi consigli e con la sua preparazione scientifica ci ha sostenuto in questi mesi, il nostro coach) che mi guardano furbi e tranquilli, come se mi aspettasero. Lui nessuno stupore. Ok, penso, “Dio hai ascoltato la mia preghiera, non vuoi che perda la speranza e sei venuto a darmi una mano e mi guardi da questo paio di occhi neri”. Dico se accade anche questo, tutto può accadere. Dico “questo è un buon segno, allora ce la posso fare”. Dico “chi ci aiuta e protegge trova sempre il modo di darci una mano, se gliela chiediamo forte”.
Poi partiamo piano piano sento uno che urla “siamo una massa di esauriti siamo da ricovero” e mi viene da ridere. Così inizio ridendo.
La corsa la ricordo bella. Un sacco di gente sempre. Un truppone di gente con cui correre insieme sempre. I primi dieci km fuggono, volano via in un lampo, siamo gasati dopo tutta quell’attesa, le gambe scalpitano, siamo dei cavalli che vogliono andare, la gente ci sostiene e ci applaude, io applaudo loro. Arriviamo alle Cascine, devo fare la pipì mi infratto nel parco dietro un cespuglio e vedo il serpentone immenso dietro di noi che mi passa tutto di fronte, li guardo e dico, al diavolo la privacy, me ne frego. Mi sento viva. Raggiungo Dani, sto bene, corro al mio ritmo, riesco a tenerlo. Mi fanno male i piedi, e mi dico non pensare che i piedi fanno male. Mi fermo, allento le scarpe. Mi fa male la caviglia, mi dico non pensare che la caviglia fa male. Ripeto come un mantra non fa male non fa male. Piove pioggia gelata e c’è vento, posso vincere la pioggia, posso vincere il vento, basta fare il prossimo passo e quello dopo ancora, ogni passo mi porta a casa, ogni passo mi porta dentro me stessa. Sono concentrata, non guardo i km, non voglio pensare a quanto ho fatto e a quanto mi manca (cosa che per esempio nei lunghi e nel lunghissimo mi è stato indispensabile per finire) evito le buche se posso, evito i marciapiedi, evito le pozzanghere, ma non sempre riesco, e quando metto il piede sento acqua gelata fino alle caviglie, piedi pesanti. Mi fermo ai ristori, mangio qualcosa, prendo i sali, ripartire è durissima, e solo dopo qualche centinaio di metri sento il beneficio della sosta. Si attraversa la città per andare allo stadio, una zona non bella, la gente ci guarda perplessa, non ci sono supporter che ci incitano ma fiorentini incavolati che vogliono prendere la macchina e non possono farlo: il punto estremo della gara, intorno al 30km.
Siamo al ritorno, si torna in città, la mia sorpresa di vedere Alfio e Renato con le loro belle mogli ad aspettarci e ad urlare in piazza, sotto quel diluvio, hanno fatto tutta quella strada per darci coraggio e applaudire, non ci posso credere, mi spuntano le ali ai piedi e gli ultimi chilometri li ho tirati anche per loro, e per la loro grande prova d’amicizia. L’arrivo è incosciente, non aspettavo che fosse subito, dopo la curva entra la piazza, l’abbraccio della gente che applaude, che mi sostiene per gli ultimi metri. La linea del traguardo. Non riesco a respirare per l’emozione, mi manca il fiato, la gola si chiude, ho passato trenta secondi pensando “che ridere, ora che è finita vado dalla Crocerossa a farmi dare ossigeno”.
Mi calmo, respiro, posso farcela, respiro, ce l’ho fatta, riesco a respirare e penso ho desiderato tanto una cosa che l’ho realizzata. Sono fiera di me. Non sono nessuno. Ho fatto un’impresa, sono un’eroina. Non sono forte. Sono fortissima. Ho seguito la linea verde. Galleggio sulla Piazza. Sono lì e contemporaneamente sono in tutta la strada che ho fatto. Aspetto Dani, mi abbraccia, piangiamo abbracciati.
Anna
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