Firenze,
28 novembre 2010
C’è
una sottile linea verde acido che segna come un nastro il
percorso, il gomitolo di strade che bisogna fare. Correndo ci mettevo i piedi
sopra e pensavo che ogni passo che facevo, era un passo
che mi portava al traguardo.
La mia
maratona è cominciata per scherzo. A una cena della squadra alcuni veterani,
grandi maratoneti di esperienza e di risultati, la proposero a tutti, dicendo:
è possibile! Potete farcela! Mentre loro parlavano persuasivi, io pensavo, “ma va’, non posso farcela,
non sono un’atleta, sono una persona normalissima io, una mamma e non una
ragazzina, non ho doti sportive eccezionali nè chissà che fisico adatto per la
corsa di resistenza”.
Ma un tarlo è entrato in me.
Perchè non accettare questa sfida? Perchè non mettermi alla prova
ancora, per l’ennesima volta nella mia vita, e affrontare un’impresa
all’apparenza impossibile. Così mi sono guardata allo specchio, ho visto una
quarantenne pienamente dentro i suoi anni, ho detto “valà valà che non hai ancora dato tutto, puoi ancora stupire te stessa
e gli altri intorno a te”. Così ho deciso di farlo.
E se
decido di farlo, io lo faccio, cascasse il mondo, ma
lo faccio, quello che a volte è un difetto, la caparbietà può essere un pregio,
la volontà.
Ci
sono riuscita grazie al fatto che Dani si è messo al
mio fianco e ha deciso di stare con me in questa cosa. Senza di lui sarebbe
stato molto più difficile. È stato il mio partner, il mio compagno, il mio
amico, il mio avversario, il mio trainer, il mio motivatore, il mio aiuto,
sempre. Prima era un po’ titubante, un giorno gli ho detto “Non mi mollare adesso, lo facciamo insieme, io e te, è una cosa nostra” lui ha risposto “Ok, ti accompagno, lo facciamo insieme”.
Arriviamo
infine a Firenze, dopo quattro mesi di preparazione. Il
sabato partiamo, ci fermiamo a mangiare in un ristorante delizioso ad Anghiari,
decidiamo la strategia: la gara è un’incognita per noi, la maratona merita
rispetto e suscita timore: noi non sappiamo se possiamo farcela, così decidiamo
di stare insieme nella prima metà e macinare un po’ di chilometri, e poi che
ognuno corresse la sua corsa.
Dani
ha tagliato il traguardo poco dopo di me, e quei pochi minuti che l’ho
aspettato all’arrivo sono stati brutti, senza di lui non riuscivo a essere
contenta, infatti l’emozione è salita solo quando mi
ha abbracciato e ci siamo stretti uno all’altra.
Ero
infreddolita, bagnata fradicia, stanca, dovevamo toglierci da lì, continuava a
diluviare e ora che ci eravamo fermati il freddo era
devastante. Ma tutto il mio corpo si rifiutava di fare
un altro passo. Ho avuto dieci minuti di distruzione totale, talmente provata
da non sentire neanche gioia, solo male. Era arrivato IL MIO MURO, ma per
fortuna la gara era finita. Sono stata programmata per 42.195 metri e non potevo
fare uno di più.
L’altro
momento terribile è stato alla partenza. Ricordo questo piazzale pieno
all’inverosimile di gente: sembriamo tutti dei fantasmi, la pioggia è
implacabile, non smette mai, anzi viene giù sempre più violenta, il vento è
tagliente e gelido. Tra un mantello e l’altro incontriamo Jump un abbraccio una stretta, ci fa coraggio. Ricordo una coda
interminabile per il bagno, e quei pochi istanti che ci passo dentro dove non
piove: penso resto qui, non voglio tornare in quell’inferno. Dico a Dani questo
è l’inferno e noi siamo i dannati.
Entriamo
in griglia nella gabbia dei polli, di chi non ha il tempo, quindi tutta gente
come noi, novellini e spaesati. Tutti incappucciati in questi
sacchi verdi di plastica e con look anti-pioggia improbabili. Io mi
sento disperata, letteralmente, senza speranza. Mi dico, già per me è una cosa
difficile correre per quarantadue chilometri in una giornata fatta apposta per
correre, oggi non ce la farò mai. Dopo i più di mille km fatti per la
preparazione, dopo le due paia di scarpe che ho consumato, dopo che i miei
bambini mi aspettano che ritorni a casa con la medaglia, dopo che ho preso
l’antibiotico fino a ieri, dopo tutto quello che ho fatto per essere qui, devo
affrontare ancora un imprevisto a un passo dalla fine. Per altro io non amo
correre al freddo o con la pioggia, lo faccio se devo, ma ne soffro.
La
preparazione della maratona è stata un filo verde lungo e sottile che è
iniziato molto prima di Piazzale Michelangelo. È iniziato su e giù per le nostre meravigliose colline, è proseguito
per buona parte dell’estate sulle spiaggie della riviera romagnola, si è
srotolato fino a Berlino, a Pescara, e ovunque io fossi e ci fosse un po’ di
strada, mi sono messa le scarpe e ci sono passata sopra di corsa. E adesso
arriva una maledetta perturbazione atlantica tra due giorni bellissimi a
buttare giù più acqua di quanto non ne sia venuta nell’ultimo mese. Allora
dillo, Dio dei runners, che non ci vuoi bene a noi, dillo che ci vuoi mettere
alla prova fino all’ultimo e vedere di che pasta siamo fatti.
Tengo gli occhi bassi per non avere l’acqua in
faccia, ogni tanto li tiro sù per vedere lo sguardo rassegnato e incoraggiante
di Dani che cerca di mandare vie le mie paure. Nel vuoto nel deserto totale di
quel momento aprono le griglie e dico proviamo ad andare avanti, prendiamo il
palloncino delle quattro ore e un quarto, so che Serena (con lei e altri amici
abbiamo cenato la sera prima) è lì e vorrei trovarla. Ci facciamo
strada in mezzo alla folla fino a che mi fermo, è impossibile in quel momento
proseguire. Mi volto. Di fianco a me, esattamente di fianco a me, in mezzo a
diecimila persone, spuntano da sotto una specie di turbante di plastica gli
occhi ironici e sorridenti di Claudio (l’amico medico e maratoneta che con i
suoi preziosi consigli e con la sua preparazione scientifica ci ha sostenuto in
questi mesi, il nostro coach) che mi guardano furbi e
tranquilli, come se mi aspettasero. Lui nessuno stupore. Ok, penso, “Dio hai ascoltato la mia preghiera, non vuoi
che perda la speranza e sei venuto a darmi una mano e mi guardi da questo paio
di occhi neri”. Dico se accade anche questo, tutto può accadere.
Dico “questo è un buon segno, allora ce
la posso fare”. Dico “chi ci aiuta e
protegge trova sempre il modo di darci una mano, se gliela chiediamo forte”.
Poi partiamo piano piano sento uno che urla “siamo una massa di esauriti
siamo da ricovero” e mi viene da ridere. Così inizio ridendo.
La corsa la ricordo
bella. Un sacco di gente sempre. Un truppone di gente con cui correre insieme
sempre. I primi dieci km fuggono, volano via in un lampo, siamo gasati dopo
tutta quell’attesa, le gambe scalpitano, siamo dei cavalli che vogliono andare,
la gente ci sostiene e ci applaude, io applaudo loro.
Arriviamo alle Cascine, devo fare la pipì mi infratto
nel parco dietro un cespuglio e vedo il serpentone immenso dietro di noi che mi
passa tutto di fronte, li guardo e dico, al diavolo la privacy, me ne frego. Mi
sento viva. Raggiungo Dani, sto bene, corro al mio ritmo, riesco a tenerlo. Mi
fanno male i piedi, e mi dico non pensare che i piedi fanno
male. Mi fermo, allento le scarpe. Mi fa male la caviglia, mi dico non
pensare che la caviglia fa male. Ripeto come un mantra
non fa male non fa male. Piove pioggia gelata e c’è
vento, posso vincere la pioggia, posso vincere il
vento, basta fare il prossimo passo e quello dopo ancora, ogni passo mi porta a
casa, ogni passo mi porta dentro me stessa. Sono concentrata, non guardo i km,
non voglio pensare a quanto ho fatto e a quanto mi manca (cosa che per esempio
nei lunghi e nel lunghissimo mi è stato indispensabile per finire) evito le
buche se posso, evito i marciapiedi, evito le pozzanghere, ma non sempre
riesco, e quando metto il piede sento acqua gelata
fino alle caviglie, piedi pesanti. Mi fermo ai ristori, mangio qualcosa, prendo
i sali, ripartire è durissima, e solo dopo qualche centinaio di metri
sento il beneficio della sosta. Si attraversa la città per andare allo stadio,
una zona non bella, la gente ci guarda perplessa, non ci sono
supporter che ci incitano ma fiorentini incavolati che vogliono prendere la
macchina e non possono farlo: il punto estremo della gara, intorno al 30km.
Siamo al ritorno, si torna in città, la mia
sorpresa di vedere Alfio e Renato con le loro belle mogli ad aspettarci e ad urlare in piazza, sotto quel diluvio, hanno fatto tutta
quella strada per darci coraggio e applaudire, non ci posso credere, mi
spuntano le ali ai piedi e gli ultimi chilometri li ho tirati anche per loro, e
per la loro grande prova d’amicizia. L’arrivo è incosciente, non aspettavo che
fosse subito, dopo la curva entra la piazza,
l’abbraccio della gente che applaude, che mi sostiene per gli ultimi metri. La
linea del traguardo. Non riesco a respirare per l’emozione, mi manca il fiato,
la gola si chiude, ho passato trenta secondi pensando “che ridere, ora che è finita vado dalla Crocerossa a farmi dare
ossigeno”.
Mi calmo, respiro, posso farcela, respiro, ce l’ho fatta, riesco a respirare e penso ho desiderato
tanto una cosa che l’ho realizzata. Sono fiera di me. Non sono
nessuno. Ho fatto un’impresa, sono un’eroina. Non sono forte. Sono fortissima.
Ho seguito la linea verde. Galleggio sulla Piazza. Sono lì e contemporaneamente
sono in tutta la strada che ho fatto. Aspetto Dani, mi abbraccia, piangiamo abbracciati.
Anna